"Il pubblico" - privato o associazione - può richiedere le informazioni ambientali alle autorità che le detengono. Può anche partecipare alle procedure decisionali su progetti e programmi che hanno un impatto ambientale. Così come può ricorrere alla giustizia contro gli atti e le omissioni dei privati e delle pubbliche autorità che violano le norme di diritto ambientale. Questi sono i tre pilastri della Convenzione di Aarhus - "Convenzione sull'accesso alle informazioni, la partecipazione dei cittadini e l'accesso alla giustizia in materia ambientale" - firmata nella cittadina danese di Aarhus nel 1998, entrata in vigore nel 2001.
Tale normativa, però, a distanza di dieci anni ancora presenta aspetti controversi soprattutto per quanto riguarda il terzo pilastro ossia quello sull'accesso alla giustizia in materia ambientale.
Il volume "La convenzione di Aarhus e l'accesso alla giustizia in materia ambientale" si occupa proprio di questo. Esso raccoglie gli interventi presentati in occasione dell'iniziativa convegnistica sull'argomento tenutasi presso l'Università di Bologna nel marzo 2010 e finanziata dal Ministero dell'Ambiente, del Territorio e del Mare. Un convengo in cui i relatori - provenienti dal mondo accademico, professionale e governativo - affrontano le criticità che si riscontrano rispetto alle norme sul tema di accesso alla giustizia in materia ambientale.
In generale la Convenzione rappresenta uno strumento internazionale di fondamentale rilevanza per la sensibilizzazione e il coinvolgimento della società civile sulle tematiche ambientali. Si fonda sulla convinzione che una diffusa conoscenza dei dati ambientali, una concreta partecipazione ai processi decisionali consentono di migliorare le qualità delle decisioni delle autorità, ne rafforzano l'efficacia, contribuiscono a sensibilizzare il pubblico alle tematiche ambientali e gli consento di esprimere le proprie preoccupazioni permettendo alle autorità di tenerne adeguatamente conto.
Ma il tutto deve essere garantito, previsto, attuato, attuabile e accessibile.
Innanzi tutto la convenzione deve essere "tradotta" a livello nazionale, ancor prima a livello comunitario. Il che è avvenuto. In Europa con diverse direttive e regolamenti, in Italia con altrettante normative (spesso di recepimento di quelle europee). Ma c'è anche la necessità di prevedere l'effettiva attuazione degli strumenti sanciti nella normativa all'interno dello Stato.
Per quanto riguarda il primo pilastro, concernente il diritto all'informazione ambientale si può dire che l'ordinamento italiano abbia percorso i tempi anticipando quello che poi sarebbe stato sancito a livello sopranazionale. In particolare con la prima disciplina organica e generale in materia di accesso ai documenti amministrativi e successivamente con il Dlgs 195/2005. Il diritto di accesso alle informazioni ambientali è soltanto citato nell'ambito del così detto Codice ambientale o Testo univoco ambientale. L'articolo 3 sexiexs del Dlgs 152/2006 (il testo originario non citava incomprensibilmente l'accesso alle informazioni ambientali; lacuna poi colmata dal D.lgs 4/2008), si limita a fornire una formulazione molto sintetica del principio. Si dice che "chiunque senza dover essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante" può accedere alle informazioni sullo stato dell'ambiente e del paesaggio, ma non si dice che il soggetto richiedente non è neanche tenuto a "dichiararlo" (come, invece, puntualizza correttamente l'art. 3, comma 1, del Dlgs. 195/2005). Pensare, però che il testo ambientale dovrebbe raccogliere la normativa di settore nell'intenzione - si dice - di razionalizzare e semplificare la normativa ambientale rendendola più coerente per assicurare maggior certezza del diritto.
Il secondo pilastro della convenzione di Aarhus relativo alla partecipazione del pubblico ai processi decisionali in materia ambientale, è garantito in Italia dalle norme relative alle valutazioni ambientali (Via e Vas contenute nel Dlgs 152/2006) che impongono di informare la popolazione mediane anche la pubblicazione di veri e propri avvisi sui quotidiani.
Per quanto riguarda, invece il terzo pilastro della Convenzione ossia l'accesso alla giustizia in materia ambientale si possono individuare nell'ordinamento italiano strumenti di carattere generale (ad esempio quello contenuto nel codice civile all'articolo 844 o nel codice penale all'articolo 674) e quelli di carattere speciale. Questi ultimi possono essere rintracciate sempre nel Dlgs 152/2006 e in particolare nelle disposizioni in "materia di tutela risarcitoria contro i danni all'ambiente".
Potremmo dire che il nostro ordinamento offre, almeno sul piano formale diversi strumenti di accesso alla giustizia in materia ambientale. Il dubbio è se tali strumenti rendano efficace ed effettivo l'accesso alla giustizia sia in caso di negazione all'accesso alle informazioni ambientali o alla partecipazione alle decisioni, sia quando venga violata la normativa ambientale.
Sotto il profilo della dell'effettività, per cause ormai endemiche del sistema della giustizia italiana, sembrano disattese le disposizioni della Convenzione che impongo agli Stati ratificanti l'introduzione di rimedi "adeguati ed effettivi", di procedure "obiettive, eque, rapide e non eccessivamente onerose e a ridurre gli ostacoli finanziari o altri ostacoli all'accesso alla giustizia".
Sicuramente molto di più si potrebbe fare rispetto alle informazioni al pubblico circa i dati ambientali e circa la possibilità di promuovere procedimenti di natura amministrativa o giurisprudenziale anche contro atti che violano il diritto.
L'autorità pubblica ha il dovere - direttamente connesso con la trasparenza dell'attività amministrativa - di rendere disponibile l'informazione ambientale detenuta a chiunque ne faccia richiesta. (Che non sempre è così facile ottenere da parte dei cittadini a conoscenza del loro diritto).
Certo è che il diritto d'accesso non è illimitato: esistono dei casi in cui le autorità possono rifiutarsi di dare le informazioni al pubblico, ce ne sono altri in cui alcuni documenti non sono accessibili. Ci si potrebbe chiedere, però, se l'atteggiamento di diniego tenuto spesso dalla pubblica amministrazione sia da attribuire all'insofferenza della stessa per un'effettiva apertura all'esterno nei confronti dei cittadini. O forse per una non chiarezza della stessa normativa soggetta a molteplici interpretazioni.
Comunque sia i tribunali amministrativi italiani spesso si trovano a redimere cause su accessi di informazione negati da parte delle autorità che le detengono. E può accadere che l'interpretazioni data da un giudice non corrisponda a quella di un altro su una questione analoga.
Ciò accade anche per quanto riguarda la questione relativa alla legittimazione processuale delle associazioni di protezione ambientale all'impugnazione di provvedimenti lesivi di interessi ambientali.
L'articolo 309 del DLgs 152/2006 prevede che, non solo le Regioni, le province autonome e gli enti locali, ma anche gli associati, le persone fisiche o giuridiche "che sono o potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all'adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino previste dalla parte sesta del presente decreto possono presentare al Ministro dell'Ambiente e della tutela del territorio, depositandolo presso le Prefetture - Uffici territoriali del Governo, denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale e chiedere l'intervento statale a tutela dell'ambiente a norma della parte sesta del presente decreto". E prevede inoltre che "Le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell'ambiente, di cui all'articolo 13 della legge 8 luglio 1986 n. 349, sono riconosciute titolari dell'interesse ad agire". Le associazioni sono quelle a carattere nazionale e quelle presenti in almeno cinque regioni individuate con decreto del Ministro dell'ambiente sulla base delle finalità programmatiche e dell'ordinamento interno democratico previsti dallo statuto, nonché della continuità dell'azione e della sua rilevanza esterna.
Ed è proprio a tale proposito che si registra l'anomalia dell'orientamento giurisprudenziale.
Da una parte la giurisprudenza cerca di ricondurre a un particolare e determinato territorio gli interessi ambientali tutelati alle singole associazioni, dall'altra esclude in termini netti la legittimazione delle articolazioni locali, che per loro stessa natura risultano radicate su un territorio determinato e più circoscritto rispetto al corrispettivo nazionale.
Una parte della giurisprudenza, però, ha affermato che - in quanto la legge 349 non distingue tra livello nazionale e locale dell'associazione - la regolamentazione della capacità di stare in giudizio può validamente desumersi dalle disposizioni previste dagli statuti nazionali delle associazioni stesse quando questi ammettono che il ricorso venga proposto da un organo locale.
Il tentativo della giurisprudenza di collegare l'interesse esponenziale ambientale a un determinato territorio si giustifica proprio in ragione della maggiore idoneità ad agire in giudizio di coloro che effettivamente usufruiscono del bene ambientale oggetto del provvedimento.
E questo perché le associazioni a carattere locale sono le principale ed effettive portatrici dell'interesse ambientale leso e come tali le più indicate a tutelarlo.
Certo è che la mancanza di un orientamento univoco complica la situazione. Una situazione già complicata dalla non chiarezza della normativa ambientale.
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