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sabato 28 luglio 2012

Sclerosi multipla, gestire lo stress anziché prendere farmaci?


Un "semplice" corso per affrontare lo stress sarebbe provvidenziale per i malati di sclerosi multipla. Che invece non troverebbero grosso giovamento dalla classica terapia con interferone beta. I risultati di due studi pubblicati di recente sembrano mettere in dubbio molte delle certezze dei pazienti e a qualcuno potrebbe pure venire la tentazione di gettare a mare i medicinali e passare a cure alternative. Gli esperti però rassicurano, al momento i dati più certi depongono a favore delle terapie a base di farmaci.

STRESS – Eppure chi dovesse leggere i risultati della sperimentazione di David Mohr della Northwestern University di Chicago, apparsi sulla rivista Neurology, potrebbe pensare a prima vista il contrario: sedici sedute di counseling per la gestione dello stress hanno infatti ridotto la comparsa di nuove lesioni cerebrali visibili con la risonanza magnetica, con un effetto indipendente dagli altri trattamenti e, secondo il ricercatore, abbastanza cospicuo.

«Quando si sovrastima la minaccia insita in qualcosa o si sottostima la propria capacità di affrontarla, inevitabilmente siamo sottoposti a uno stress. Imparare a gestirlo in modo realistico aiuta a non soccombere, ed è quello che abbiamo insegnato attraverso tecniche di rilassamento e meditazione ai malati di sclerosi multipla che, purtroppo, devono affrontare un elevato livello di ansia connesso alla loro patologia», dice Mohr. Il risultato è che durante i sei mesi di osservazione il 70-77 per cento del gruppo di controllo ha manifestato nuove lesioni contro il 43-55 per cento di chi aveva imparato a gestire lo stress. «Attenzione però: si tratta di uno studio che ha coinvolto un decimo dei pazienti che abitualmente prendono parte a sperimentazioni cliniche serie – avverte Giancarlo Comi, direttore della Divisione di Neurologia dell'ospedale San Raffaele di Milano –. I partecipanti erano una sessantina per gruppo e se si vanno a leggere i dati si scopre che i confronti sono stati fatti su numeri ancora inferiori, perché alcuni hanno abbandonato lo studio, o ancora che non sono state fatte sufficienti valutazioni sulle condizioni di base. La sclerosi multipla è una malattia troppo eterogenea e variabile nel suo decorso per trarre conclusioni da una ricerca così piccola; peraltro si è osservata una riduzione delle lesioni del 20 per cento, assai modesta rispetto al meno 90 per cento possibile oggi con farmaci come il natalizumab. E l'effetto, spiegano i ricercatori, si annulla smettendo di seguire il corso: difficile spiegarlo, visto che le tecniche per gestire lo stress non si dovrebbero dimenticare da un momento all'altro. Detto ciò lo stress può avere un effetto negativo sulla malattia e lo ha indubbiamente sul benessere del paziente». Imparare a gestirlo quindi è opportuno, ma senza aspettarsi miracoli né tantomeno smettendo le terapie: «Non vorrei mai e poi mai venire a sapere che un malato ha abbandonato i suoi farmaci per una terapia come quella che ho proposto, tutta da confermare», ha sintetizzato Mohr.

INTERFERONE – La tentazione di lasciar perdere i medicinali potrebbe venire però anche a chi dovesse leggere lo studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association poco tempo fa: valutando il trattamento di oltre 2500 pazienti fra il 1985 e il 2008 e mettendo a confronto chi ha assunto interferone e chi non lo ha mai preso i ricercatori mostrano che il farmaco non sarebbe riuscito a ridurre significativamente la progressione della disabilità in pazienti con sclerosi multipla recidivante-remittente. Anche in questo caso però i puntini sulle i sono più che necessari: «I risultati sono del tutto opposti a quelli ottenuti in Italia con uno studio simile, in cui si sono valutate circa duemila persone con lo stesso criterio. Ovvio chiedersi come sia possibile che un farmaco dia effetti tanto diversi di qua e di là dall'oceano e comprensibile lo sgomento dei pazienti, ma la risposta c'è – osserva Comi –. Intanto si tratta di studi prospettici, in cui cioè si va a guardare che è successo ai pazienti a posteriori, indipendentemente dalla loro situazione clinica iniziale: nelle sperimentazioni invece si mettono ai blocchi di partenza malati allo stesso stadio, con caratteristiche paragonabili.

Nel primo caso chi non è stato trattato con interferone potrebbe non averne mai avuto bisogno perché ha una malattia più leggera; nel secondo caso il confronto fra chi ha preso il farmaco o è stato sorteggiato a non riceverlo dà un risultato più veritiero. Infatti se mettiamo assieme tutte le sperimentazioni cliniche dell'interferone comparando fra loro chi lo ha preso o no ma aveva condizioni iniziali analoghe vediamo che l'efficacia è evidente. Perciò i dati da studi prospettici, pur se sono stati usati “contrappesi” e correttivi, vanno presi con le pinze. Va però detto – prosegue il neurologo – che dobbiamo ancora essere cauti perché in effetti non esistono ad oggi dati certi che ci consentano di affermare che l'interferone, nel lungo periodo, impedisca al pazienti di finire in sedia a rotelle. Sappiamo che riduce l'attività della malattia e assumiamo che questo diminuisca il rischio di perdere l'autonomia motoria, ma non abbiamo prove per dirlo con certezza: per farlo occorrono studi lunghi anche quindici anni, perché gli esiti della sclerosi multipla non si decidono in un paio di anni. Questo vale per tutte le ricerche in questo campo: data l'eterogeneità e la durata della malattia, qualsiasi tipo di intervento deve essere valutato nel lungo periodo per avere dati ragionevolmente validi», conclude Comi.

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