“La perdita del patrimonio culturale ci costa circa un punto percentuale del Pil, calcolando il solo valore economico e non quello culturale, incalcolabile. Se adeguatamente conosciuto, conservato e tutelato, tale bene è una fonte inesauribile di reddito, in grado di muovere un indotto notevole in numerosi settori”. Così Marcello Guaitoli, ricercatore dell’Istituto per i beni archeologici e monumentali del Consiglio nazionale delle ricerche (Ibam-Cnr), e docente presso l’università del Salento, commenta i dati del Sistema informativo territoriale del Cnr.
“I beni archeologici presenti sul nostro territorio mediamente sono conosciuti solo per il 10%, anche per questo molti di essi rischiano una sistematica distruzione a causa di lavori agricoli, di urbanizzazione, scavi clandestini e fenomeni naturali”.
I dati del Sistema informativo territoriale (Sit) raccolti attraverso le ricognizioni in sito, condotte in Lazio e Puglia dal Cnr in sinergia con le università di Roma ‘La Sapienza’, Siena, Napoli e della Tuscia e con le strutture centrali e periferiche del ministero per i Beni e le attività culturali, sono stati al centro del convegno ”I beni che perdiamo” che si è svolto a Roma il 12 e 13 giugno. Un confronto tra varie istituzioni su rischio e azione di salvaguardia di monumenti, centri storici, paesaggi e siti, anche alla luce degli ultimi eventi sismici.
Le ricchezze archeologiche non censite e rilevate grazie all’indagine scientifica condotta dal Sit mediante metodologie e tecnologie innovative nei territori di Lazio e Puglia, vanno da un minimo del 67% (Taranto) a un massimo del 94% (Neviano, in provincia di Lecce).
“Nel territorio di Taranto, su un totale di 1.190 siti, ben 859 sono noti grazie alla ricognizione a tappeto, mentre le aree sottoposte a vincolo sono 8, quelle archiviate della Soprintendenza 63 e 331 quelle note dalla bibliografia, 44 delle quali sono scomparse – ha spiegato Guaitoli -. Nulla in confronto a Ruvo (Bari), dove il 99% dei siti segnalati non esiste più”.
Nel Salento le evidenze scoperte grazie alla ricerca sono il 77%, pari a 3.166 sul totale delle 3.931 conosciute, a Capo Santa Maria di Leuca, 1.001 su 1.092. Il caso limite è Neviano, dove solo il 6% delle aree archeologiche è presente in bibliografia.
Altrettanto critica la situazione nel Lazio. Nel territorio di Viterbo l’87% del conosciuto, 2.158 presenze, è frutto della mappatura. Nell’area a nord-ovest di Roma sono stati rintracciati 3.183 siti, il 55% dei quali prima sconosciuti. “E anche qui emerge il dato sconfortante dei molti luoghi di interesse citati in fonti scritte oggi scomparsi - prosegue il ricercatore dell’Ibam-Cnr: esemplare la via Prenestina, dove solo 245 su 856 presenze archeologiche rilevate nel 1970 sono scampate alle opere di urbanizzazione”.
In realtà la minaccia maggiore per il patrimonio culturale è costituita dai lavori agricoli, che incidono da un minimo del 40% (Neviano) fino all’87% di Commenda (Vt). Infrastrutture industriali e urbane, scavi clandestini e fenomeni naturali sono le altre cause.
“Nel Salento sono state danneggiate 2.916 evidenze su 3.931; a nord ovest della Capitale 1.478 su 3.183; a Viterbo, 1.342 su 2.256 solo quelle compromesse dall’agricoltura – ha concluso Guaitoli -. Il Sit mostra situazioni critiche diversificate: beni conosciuti e vincolati ma privi di tutela diretta, altri esistenti ma ignoti e di conseguenza anch’essi non protetti. Un contributo sostanziale alla loro salvaguardia si deve al monitoraggio aereo e terrestre condotto da più di dieci anni dal Comando carabinieri tutela patrimonio culturale, in collaborazione con il Cnr. Queste indagini hanno contribuito alla riduzione degli interventi dolosi e permesso di scoprire un numero elevatissimo di evidenze sconosciute, in alcuni casi di rilevanza assoluta”.
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