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mercoledì 18 aprile 2012

Germania a corrente alternata

Le conseguenze della crisi economica che ha colpito il mondo occidentale dal 2007-2008 in poi diventano ogni giorno sempre più evidenti. C'è la perdita secca di ricchezza patrimoniale delle famiglie e l'erosione costante dei redditi. Ma soprattutto vi sono i posti di lavoro perduti, che non sono stati per il momento nemmeno lontanamente ricostituiti. Non bastano i modesti ed altalenanti segnali di recupero dell'occupazione in America, su cui Bernanke stesso ha invitato alla prudenza, a far ritornare la fiducia. Mentre solo tra qualche tempo potremo capire se gli oltre 1,2 milioni occupati in più che la Germania si vanta di aver accumulato tra il 2007 e il 2011 sono davvero tutti oro quanto luccicano, visto che, in base ai dati Eurostat di contabilità nazionale, 477mila di essi sono costituiti da nuovi occupati nella pubblica amministrazione e altri 585mila sono rappresentati da nuovi occupati in un settore, quello dei servizi professionali, tecnici ed amministrativi, che nello stesso periodo ha perso paradossalmente circa 7 miliardi di euro di valore aggiunto a prezzi costanti. Che nuovi posti di lavoro sono questi? Occupati stabili? O anche la Germania ha accumulato una montagna di precari?
In un'Europa dove nel 2012 l'Italia arretra più di tutti nella crescita solo perché ha messo in campo misure di austerità forti come nessun altro Paese ha sinora fatto - Grecia a parte - ormai non v'è più ombra alcuna di sviluppo. Questa è la dura realtà. E mentre la crisi dei debiti sovrani è divampata in modo drammatico, estendendosi dai Paesi "periferici" fino a lambire la Spagna, l'Italia e persino la Francia, il livello dei debiti del settore privato resta altissimo in tante economie europee e negli stessi Usa. L'assenza di crescita è ormai il grande male dell'Europa e non solo di essa perché non è che America e Giappone brillino per dinamismo.
La misura della fragilità della situazione economica europea è data dalla stessa situazione della Germania, vista tradizionalmente come la "locomotiva" del continente. Il settore manifatturiero è in netto rallentamento. Secondo i dati Eurostat nel quarto trimestre 2011 il valore aggiunto manifatturiero tedesco è diminuito su base congiunturale addirittura del 2,2% e il 2012 si è aperto con un andamento altalenante della produzione industriale complessiva.
Vi è poi da considerare una singolare divergenza che sembra emergere tra i dati dell'indice della produzione manifatturiera della Germania e il valore aggiunto manifatturiero a prezzi costanti quale appare dai dati tedeschi di contabilità nazionale. Infatti, nel periodo 2007-2011 la produzione manifatturiera annua della Germania è cresciuta, secondo l'Eurostat, dell'1,1%. Vale a dire che sarebbe già tornata sopra i massimi pre-crisi, unico caso tra i grandi Paesi Ue. Il valore aggiunto manifatturiero tedesco a prezzi concatenati del 2005 è invece ancora inferiore del 9,1% rispetto al 2007, cioè sarebbe sotto un po' di meno, ma nemmeno di tanto, di quanto è tuttora inferiore il valore aggiunto manifatturiero dell'Italia. La divergenza è ancor più eclatante se si considerano i dati trimestrali destagionalizzati. Da essi appare evidente che, contrariamente all'indice della produzione manifatturiera, il valore aggiunto manifatturiero tedesco è diminuito molto più di quello italiano durante la crisi; poi ha recuperato un po' più velocemente ma nel quarto trimestre 2011 si trovava comunque ancora non molto al di sopra di quello italiano.
Di fronte a dati così contraddittori, è inevitabile chiedersi quale sia il reale andamento del settore manifatturiero tedesco. È davvero così brillante, come apparirebbe dall'indice della produzione manifatturiera? Oppure non è andato poi molto meglio di quello italiano, come apparirebbe dai dati di contabilità nazionale? Come è possibile che tra l'indice della produzione manifatturiera di Berlino e quello del corrispondente valore aggiunto che concorre alla crescita del Pil si sia determinato uno scarto in quattro anni di ben 11 punti percentuali?
Può darsi che alla base di queste dinamiche divergenti vi siano delle motivazioni tecniche, peraltro poco giustificabili, relative alle modalità di rilevazione/costruzione dei dati statistici. È più probabile, però, che stiano venendo al pettine in Germania i limiti di un modello di produzione troppo basato sulla "bazar economy", cioè di una manifattura che, benché completata in patria, lascia ormai una quota sempre maggiore di valore aggiunto all'estero, nei Paesi ove è stata delocalizzata la produzione, con un forte conseguente aumento dell'import. Tutto ciò dovrebbe far capire anche a Berlino quanto sia urgente un piano europeo che coniughi il rigore con lo sviluppo. Perché anche la crescita interna della sempre più multinazionale manifattura tedesca, terminata l'effimera fiammata del 2010-2011, d'ora in avanti diventerà sempre più problematica.
LE INCONGRUENZE FRA PRODUZIONE E VALORE AGGIUNTO
-17% - Indice del manifatturiero in Italia
Nel periodo fra il 2007 e il 2011 l'indice della produzione manifatturiera in Italia (prendendo il 2005 come 100) segna un calo del 17 per cento. Negli stessi anni la produzione del settore manifatturiero della Germania è cresciuta ogni anno, secondo i dati Eurostat, dell'1,1 per cento. Ciò significa che sarebbe già tornata sopra i massimi del periodo pre-crisi, unico caso tra i principali Paesi della Ue. Il valore aggiunto manifatturiero tedesco a prezzi concatenati del 2005 è invece ancora inferiore del 9,1% rispetto al 2007, cioè sarebbe sotto un po' di meno, ma nemmeno di tanto, di quanto è tuttora inferiore il valore aggiunto manifatturiero dell'Italia (-13,3%), che appare più in linea con il calo del nostro indice della produzione industriale (-17%). I dati italiani hanno tutti segni negativi, quale specchio delle difficoltà dell'economia reale. È davvero così brillante il settore tedesco, come apparirebbe dall'indice della produzione manifatturiera?

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