Quando va a alle urne poco più di un elettore su due, quando in una città Genova vota il 39 per cento, quando a Parma il Pd si fa surclassare dal grillino definito "un candidato di serie b", vuol dire che milioni di elettori si sono rimessi in movimento, con un unico bersaglio: basta con questi politici, è finita un'epoca
Guardavo Pier Luigi Bersani questo pomeriggio alla conferenza stampa post-voto. Non lo dirà, pensavo, non farà l'errore di dirlo, non lo dire... "Non è vero che il Pd perde ovunque contro Grillo. A Garbagnate e a Budrio abbiamo vinto". Ecco, l'ha detto.
E adesso, che faranno? Si rinchiuderanno nel bunker e proveranno a resistere? Si consegneranno a braccia alzate? Oppure cercheranno di combattere, di cambiare se non per virtù almeno per non morire? Cosa faranno i partiti da qui alle elezioni politiche della primavera 2013, in questi dieci mesi che restano prima della fine della legislatura? Perché è questa l'unica domanda che conta al termine di un turno elettorale che ha spazzato via ipotesi politiche che resistevano da anni, strategie raffinatissime, leadership intramontabili. E un modo di fare politica che è passato indenne ai cambi di Repubbliche e di regime.
Non c'è solo il risultato di Parma che per Beppe Brillo e il Movimento 5 Stelle doveva essere una Stalingrado ed è diventata una Bastiglia, una storica conquista. C'è il successo di Comacchio, nella terra offesa dal sisma, dove il grillino Marco Fabbri vola al 70 per cento, c'è Mira, comune della provincia di Venezia tradizionalmente rosso, dove vincono le armate del comico. E perfino a Budrio, a un passo da Bologna, il centrosinistra fatica a vincere contro il candidato di 5 Stelle.
Più che un campanello d'allarme, per i partiti è una sirena impazzita. Il capolinea. La delegittimazione del sistema. Quando va a votare poco più di un elettore su due, quando in una città come Genova vota appena il 39 per cento degli aventi diritto, quando a Parma il presidente della Provincia in carica si fa surclassare dal grillino che appena quattordici giorni fa aveva definito "un candidato di serie b", vuol dire che milioni di elettori si sono rimessi in movimento, con un unico bersaglio: basta con questi partiti. Non sarà il boom economico, ma un boom della rivolta questo sì. Bersani si consola, "abbiamo vinto a Garbagnate", beato lui.
Scompare la Lega, che perde in blocco sette ballottaggi su sette: tra il primo e il secondo turno è arrivata l'inchiesta su Bossi e sulla Family a dare il colpo di grazia sul povero Carroccio. Affonda come una nave da crociera incastrata negli scogli il Pdl, il partito-che-tremare-il-mondo-fa, abbandonato dal suo comandante Schettino-Berlusconi, che in due settimane non ha trovato il tempo per partecipare a un incontro elettorale o per spendere una parola buona per il suo partito. Angelino Alfano il giovane perde malamente a Monza, Alessandria, Asti, Isernia, Rieti, città finora governate dagli azzurri, per non parlare di Palermo e Verona dove non è arrivato neppure al ballottaggio. Sconfitto perfino in casa, nella sua Agrigento, con il sindaco centrista Zambuto che lo sbeffeggia: "Ad Angelino Alfano, oltre che il quid, mancano anche i voti". "Non è una catastrofe, è una sconfitta", aveva commentato Alfano dopo il primo turno. Stasera non è una sconfitta, è una catastrofe. E ora vedremo quale sarà la sorpresa del 24 maggio, la più grande novità della politica italiana, aveva annunciato il segretario del Pdl un mese fa. Il cambio del nome non basta più.
Resta in piedi il Pd. L'Usato Sicuro, aveva detto di se stesso Pier Luigi Bersani. Da mesi la strategia di largo del Nazareno si riassume in una frase: ricostruire il sistema dei partiti. Per questo il Pd si apprestava a votare una legge elettorale proporzionale che avrebbe restituito alle segreterie il potere di fare e disfare i governi in Parlamento. Per questo Bersani aveva firmato con Casini e Alfano una proposta di legge in cui definiva "drammatico" il progetto di eliminare il finanziamento pubblico dei partiti. Per questo il Pd ha alzato la bandiera della difesa della politica contro l'anti-politica. Rischiando di apparire, però, il vessillo del Sistema, anzichè incarnare il Cambiamento, come Hollande in Francia o i socialdemocratici in Germania.
Dire: noi del Pd abbiamo vinto contro il Pdl avrebbe un senso nel vecchio bipolarismo sinistra-destra. Ma quel bipolarismo non c'è più. Appartiene al passato, spazzato via. E di conseguenza non c'è più la categoria del
E adesso, che faranno? Si rinchiuderanno nel bunker e proveranno a resistere? Si consegneranno a braccia alzate? Oppure cercheranno di combattere, di cambiare se non per virtù almeno per non morire? Cosa faranno i partiti da qui alle elezioni politiche della primavera 2013, in questi dieci mesi che restano prima della fine della legislatura? Perché è questa l'unica domanda che conta al termine di un turno elettorale che ha spazzato via ipotesi politiche che resistevano da anni, strategie raffinatissime, leadership intramontabili. E un modo di fare politica che è passato indenne ai cambi di Repubbliche e di regime.
Non c'è solo il risultato di Parma che per Beppe Brillo e il Movimento 5 Stelle doveva essere una Stalingrado ed è diventata una Bastiglia, una storica conquista. C'è il successo di Comacchio, nella terra offesa dal sisma, dove il grillino Marco Fabbri vola al 70 per cento, c'è Mira, comune della provincia di Venezia tradizionalmente rosso, dove vincono le armate del comico. E perfino a Budrio, a un passo da Bologna, il centrosinistra fatica a vincere contro il candidato di 5 Stelle.
Più che un campanello d'allarme, per i partiti è una sirena impazzita. Il capolinea. La delegittimazione del sistema. Quando va a votare poco più di un elettore su due, quando in una città come Genova vota appena il 39 per cento degli aventi diritto, quando a Parma il presidente della Provincia in carica si fa surclassare dal grillino che appena quattordici giorni fa aveva definito "un candidato di serie b", vuol dire che milioni di elettori si sono rimessi in movimento, con un unico bersaglio: basta con questi partiti. Non sarà il boom economico, ma un boom della rivolta questo sì. Bersani si consola, "abbiamo vinto a Garbagnate", beato lui.
Scompare la Lega, che perde in blocco sette ballottaggi su sette: tra il primo e il secondo turno è arrivata l'inchiesta su Bossi e sulla Family a dare il colpo di grazia sul povero Carroccio. Affonda come una nave da crociera incastrata negli scogli il Pdl, il partito-che-tremare-il-mondo-fa, abbandonato dal suo comandante Schettino-Berlusconi, che in due settimane non ha trovato il tempo per partecipare a un incontro elettorale o per spendere una parola buona per il suo partito. Angelino Alfano il giovane perde malamente a Monza, Alessandria, Asti, Isernia, Rieti, città finora governate dagli azzurri, per non parlare di Palermo e Verona dove non è arrivato neppure al ballottaggio. Sconfitto perfino in casa, nella sua Agrigento, con il sindaco centrista Zambuto che lo sbeffeggia: "Ad Angelino Alfano, oltre che il quid, mancano anche i voti". "Non è una catastrofe, è una sconfitta", aveva commentato Alfano dopo il primo turno. Stasera non è una sconfitta, è una catastrofe. E ora vedremo quale sarà la sorpresa del 24 maggio, la più grande novità della politica italiana, aveva annunciato il segretario del Pdl un mese fa. Il cambio del nome non basta più.
Resta in piedi il Pd. L'Usato Sicuro, aveva detto di se stesso Pier Luigi Bersani. Da mesi la strategia di largo del Nazareno si riassume in una frase: ricostruire il sistema dei partiti. Per questo il Pd si apprestava a votare una legge elettorale proporzionale che avrebbe restituito alle segreterie il potere di fare e disfare i governi in Parlamento. Per questo Bersani aveva firmato con Casini e Alfano una proposta di legge in cui definiva "drammatico" il progetto di eliminare il finanziamento pubblico dei partiti. Per questo il Pd ha alzato la bandiera della difesa della politica contro l'anti-politica. Rischiando di apparire, però, il vessillo del Sistema, anzichè incarnare il Cambiamento, come Hollande in Francia o i socialdemocratici in Germania.
Dire: noi del Pd abbiamo vinto contro il Pdl avrebbe un senso nel vecchio bipolarismo sinistra-destra. Ma quel bipolarismo non c'è più. Appartiene al passato, spazzato via. E di conseguenza non c'è più la categoria del
voto utile: non basta evocare l'uomo nero Berlusconi da un lato o battere la sinistra, i comunisti ecc. dall'altro per portare gli elettori a votare. Non c'è più lo scontro tra schieramenti classico. C'è un nuovo bipolarismo, pro o contro il sistema dei partiti, questi partiti. Per ora ruota su Grillo, ma anche a Palermo, per esempio, i cittadini hanno preferito votare per Leoluca Orlando, sindaco già ventesette anni fa, che aveva come merito di non avere appartenenze politiche, solo contro tutti, un hombre vertical tra tanti ominicchi e quaquaraquà. Ma di certo per il Pd sarebbe un errore letale schierarsi "da una parte della barricata", come fece il Pci di Togliatti nel 1956, dalla parte dei carri armati sovietici contro gli insorti ungheresi. Anche in questo caso, come allora, capeggiare la resistenza dei partiti sarebbe la barricata sbagliata.
Non c'è più il voto utile, non c'è più il Nemico. Quante volte in quindici anni i capi del Pds-Ds-Pd, i D'Alema e i Bersani, hanno spiegato con aria didattica che "non si vince con l'anti-berlusconismo"? Lo ripetevano, in verità, per esorcizzare la parte più radicale e esigente del loro elettorato che invocava giustamente una maggiore fermezza e intransigenza nei confronti del Cavaliere. Ma c'era almeno un aspetto positivo: chiedere il voto non contro qualcuno ma a favore di qualcosa. Il problema è che quel progetto per lungo tempo non si è visto e quando si andava a votare l'argomento forte per riportare il popolo alle urne restava quello: attenzione, qui vince Berlusconi. Ora sarebbe ridicolo sostituire l'anti-berlusconismo con l'anti-grillismo o consolarsi con i guai della destra berlusconiana. Dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro i capi venuti dal Pci: quando cade un pezzo di sistema politico, come accadde quando crollò il muro di Berlino, anche quello che in apparenza resta in piedi deve cambiare. O muore, come avvenne alla Dc e al Psi che cantavano vittoria dopo la sconfitta del nemico comunista.
Il governo Monti doveva garantire ai leader la tregua necessaria per fare le riforme. Non una riformicchia della legge elettorale ma un cambiamento radicale, che venisse incontro alla "volontà popolare massacrata dai partiti", ha detto Romano Prodi due giorni fa a Bologna. Ora il tempo è scaduto. A furia di invocare l'autonomia della politica contro l'anti-politica si è consegnata una fetta maggioritaria di elettorato all'astensione e una quota crescente a Grillo. E ci sono appena pochi giorni per cambiare. Poi si chiude il sipario. Su Berlusconi, Bossi, Scilipoti, il teatrino della politica, la legislatura più inconcludente e squallida della storia repubblicana. Ma anche su chi ha sempre promesso il Cambiamento. E che rischia di pagare un prezzo altissimo per non averlo saputo incarnare.
Non c'è più il voto utile, non c'è più il Nemico. Quante volte in quindici anni i capi del Pds-Ds-Pd, i D'Alema e i Bersani, hanno spiegato con aria didattica che "non si vince con l'anti-berlusconismo"? Lo ripetevano, in verità, per esorcizzare la parte più radicale e esigente del loro elettorato che invocava giustamente una maggiore fermezza e intransigenza nei confronti del Cavaliere. Ma c'era almeno un aspetto positivo: chiedere il voto non contro qualcuno ma a favore di qualcosa. Il problema è che quel progetto per lungo tempo non si è visto e quando si andava a votare l'argomento forte per riportare il popolo alle urne restava quello: attenzione, qui vince Berlusconi. Ora sarebbe ridicolo sostituire l'anti-berlusconismo con l'anti-grillismo o consolarsi con i guai della destra berlusconiana. Dovrebbero saperlo meglio di chiunque altro i capi venuti dal Pci: quando cade un pezzo di sistema politico, come accadde quando crollò il muro di Berlino, anche quello che in apparenza resta in piedi deve cambiare. O muore, come avvenne alla Dc e al Psi che cantavano vittoria dopo la sconfitta del nemico comunista.
Il governo Monti doveva garantire ai leader la tregua necessaria per fare le riforme. Non una riformicchia della legge elettorale ma un cambiamento radicale, che venisse incontro alla "volontà popolare massacrata dai partiti", ha detto Romano Prodi due giorni fa a Bologna. Ora il tempo è scaduto. A furia di invocare l'autonomia della politica contro l'anti-politica si è consegnata una fetta maggioritaria di elettorato all'astensione e una quota crescente a Grillo. E ci sono appena pochi giorni per cambiare. Poi si chiude il sipario. Su Berlusconi, Bossi, Scilipoti, il teatrino della politica, la legislatura più inconcludente e squallida della storia repubblicana. Ma anche su chi ha sempre promesso il Cambiamento. E che rischia di pagare un prezzo altissimo per non averlo saputo incarnare.
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