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mercoledì 29 febbraio 2012

I cinesi ci comprano per venderci in Cina

L’avanzata del Dragone in Europa si fa sempre più irresistibile. Nel 2011 l’espansione globale delle aziende cinesi ha subito una battuta d’arresto, ma non nel Continente, dove gli investimenti sono passati da 3,15 miliardi di euro nel 2010 a quasi 8 miliardi. A certificarlo è A Capital, uno dei maggiori fondi di private equity che accompagna l’avventura europea della Repubblica popolare.

Secondo la Invitalia, la presenza cinese nel nostro Paese si è intensificata passando da 39 a 75 acquisizioni, concentrate per lo più in Lombardia, Piemonte e Veneto. Nel 2010 eravamo al nono posto fra le destinazioni europee, ma non tutti gli investimenti sono registrati dal ministero del Commercio estero di Pechino, difficile quindi avere un quadro completo.

Di certo l’attenzione verso il nostro Paese sta crescendo. Lo attestano i colpi messi a segno a inizio 2012. L’ultimo è stato annunciato il 14 febbraio: la Car Luxury investment, società italiana del fondo di Hong Kong Hote York, ha acquisito il controllo della De Tomaso, storico marchio dell’automobile, rilevato nel 2009 dalla famiglia Rossignolo. «Non si tratta di operazioni estemporanee» commenta Antonio Laspina, direttore dell’ufficio Ice di Pechino, «rispondono a una precisa strategia di crescita: acquisire marchi italiani di prestigio e grazie all’iniezione di risorse finanziarie rilanciare la produzione per la conquista del mercato cinese».

Esemplare il caso degli yacht: il colosso statale Shandong Heavy Industries-Weichai group ha comprato a gennaio il cantiere Ferretti di Forlì con un obiettivo: «Il gruppo ha sede nella regione indicata dal governo come hub della nautica» spiega Laspina «perciò hanno comprato pure un’azienda francese di motori diesel».

Dietro lo shopping nel made in Italy non c’è dunque il capriccio di un oligarca, ma un’attenta pianificazione che parte dal livello più alto. «L’innovazione è diventata il paradigma ossessivo» aggiunge Giuliano Noci, prorettore del polo territoriale cinese al Politecnico di Milano. «Ci sono 170 imprese autorizzate a fare operazioni in Italia. Oltre al marchio cercano una rete ben avviata di contatti e il knowhow. Ma non per rubarlo e andarsene. I manager capiscono che stare qui è un modo per respirare creatività».

Non senza difficoltà: «Per molti cinesi il mondo esterno è ancora difficile da decifrare» osserva Lorenzo Stanca, managing partner di Mandarin, fondo di private equity partecipato da China Exim Bank, China Development Bank e dall’Intesa Sanpaolo. «Stile e cultura d’impresa sono piuttosto distanti. Anche per questo il loro ingresso in un’azienda europea avviene in punta di piedi, sanno che se volessero imporre il loro punto di vista rischierebbero di mandare tutto all’aria».

Ne è fortemente convinto anche Zhan Chunxin, ingegnere, ex ricercatore, fondatore e amministratore delegato della Zoomlion, che nel 2008 ha acquisito la Cifa, colosso delle macchine per l’edilizia. L’anno scorso è andato a spiegare la sua avventura italiana alla Harvard business school, raccontando un aneddoto illuminante.

Concluso l’accordo Cifa, gli fu detto dagli italiani che nessuno lo avrebbe accompagnato durante il suo soggiorno in Italia. In Cina questa sarebbe stata un’assoluta mancanza di rispetto. Zhan invece capì che si trattava soltanto di differenze culturali, superabili.

Ciò che molte imprese cinesi fanno invece fatica a digerire sono le complicazioni. «Alcuni accordi non si sono concretizzati a causa di lungaggini burocratiche» rivela Thomas Rosenthal, della Fondazione Italia-Cina. A spaventare gli investitori cinesi sono sia le normative sul lavoro sia il rischio paese. «Alcuni accordi sono sospesi in attesa che la situazione si chiarisca» dice Rosenthal. «Tuttavia, la strada per le aziende cinesi è obbligata. Se vogliono consolidare la loro presenza internazionale devono investire in Europa. E in Italia».

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