Negli anni Trenta fu all'avanguardia delle cosiddette politiche di "import substitution" per promuovere con le barriere commerciali l'autosufficienza industriale. Sembrava una grande idea di sviluppo per i Paesi in ritardo, la versione moderna del "protezionismo per le industrie nascenti" di ottocentesca memoria. La conseguenza fu una riduzione degli investimenti nel settore agricolo, dove il Paese ha un evidente vantaggio comparato, per destinare risorse all'industria. Quando quell'epoca si chiuse, negli anni Settanta, l'Argentina si ritrovò con un disavanzo pubblico galoppante, una capacità produttiva industriale largamente inefficiente per gli standard internazionali, un circolo vizioso di incrementi salariali ed alta inflazione che proseguì per tutti gli anni Ottanta. Il famigerato governo Menem, finito tra gli scandali, aprì nel 1989 una nuova pagina: controllo della spesa pubblica, privatizzazioni (tra cui quella della compagnia petrolifera Ypf), e l'infausto currency board, il regime di dollarizzazione voluto dal ministro Domingo Cavallo. Anni di boom, pioggia di investimenti esteri, tasso di cambio reale largamente sopravvalutato, eccesso di spesa interna sul reddito, ed infine ripudio del debito con l'estero, svalutazione fortissima del cambio, iperinflazione, miseria strisciante. Poi, lenta ma stabile, la ripresa e un nuovo rinascimento con i due Kirchner nel decennio passato.
Con la rinazionalizzazione di Ypf, l'Argentina fa di nuovo da apripista? E di cosa? In primo luogo, colpisce l'oggetto del contendere: il petrolio. L'energia, altre materie prime, e presto l'acqua rivestono uno status peculiare nella competizione aspra tra sistemi economici nazionali che cova sotto le ceneri della crisi finanziaria. La combinazione tra la domanda aggiuntiva degli emergenti - la Cina è ormai il secondo consumatore mondiale - e la minima crescita della capacità produttiva di greggio ci pone in una condizione di scarsità fino almeno 2015. Il primo messaggio della mossa argentina è che tutti i principali Paesi emergenti vogliono partecipare da attori e non più da comparse a questo Grande Gioco.
La seconda lezione riguarda i rischi di protezionismo. La domanda di protezione è alta a livello di guardia. L'alimentano il perdurare della crisi finanziaria con le sue ripetute ripercussioni su produzione e commercio mondiale, e i grandi squilibri commerciali che dividono l'Oriente dall'Occidente, o l'Europa al suo interno. Un summit assai inconcludente della Wto, nel dicembre scorso, segnalava che dopo le misure protezionistiche del 2008-2009 una seconda ondata di barriere più strutturali è alle porte. Se i Paesi emergenti non riconosceranno presto che col mutare del loro ruolo cambiano anche le loro responsabilità, potrebbero essere loro i principali protagonisti del nuovo protezionismo, e in questo senso la vicenda argentina è preoccupante sia per il timing sia per il tipo di intervento.
Ci sono molte cause per il revival dei nazionalismi: la crescente diseguaglianza dei redditi richiama una redistribuzione statale; gli eccessi e le deviazioni della finanza globale sollecitano più regolamentazione; l'epocale spostamento di ricchezza e produzione verso il Pacifico suggerisce interventi per rallentarlo o contrastarlo. L'errore spesso consiste nel ritenere che la nazione sia l'entità adatta per sviluppare l'agire politico, e che lo Stato sia l'attore giusto. Il velleitarismo può ben essere la malattia infantile del nazionalismo. Se l'Unione europea reagirà compatta e determinata per contrastare la nazionalizzazione di Ypf, la señora Kirchner sarà ricondotta a più miti consigli. Il Vecchio Continente ha un'arma efficacissima per convincere il resto del mondo a trattare, l'accesso al suo mercato interno: basta che la Commissione ed i Paesi membri non vadano in ordine sparso.
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