Un sottile lembo di terra in acqua di laguna affaccia a sud fronteggiando Venezia con una lunga fondamenta, sempre in ombra. Anticamente «Spina longa», per la forma di lisca di pesce, allungata; in seguito Giudecca, toponimo istriano che indica il mestiere di conciare le pelli. Nell'etimo rimanda alla sentenza di «giudicato», fatidica sentenza di allontanamento che colpiva gli indesiderati, mandati in confino dalla Serenissima. Niente a che vedere, sembra, con uno spazio ghettizzato. La chiamano da sempre «isola delle foche», per il vento di tramontana che la percuote a raffiche. E perché fa più freddo che dall'altra parte del canale. Confino in origine ma anche spazio di ospitalità: i pellegrini in transito per la Terra Santa, «foresti» ante litteram, ricevevano accoglienza. Una costruzione strampalata, che sembra uscita dall'estro modernista di qualche catalano, è la famigerata Casa dei Tre Oci.
In posizione strategica, si staglia quasi alla fine della Fondamenta, vicino al convento delle Zitelle, alla casa della pop star Elton John e affaccia sul Bacino di San Marco in scacco matto con l'isola di San Giorgio, la Punta della Dogana e il campanile di San Marco. Anomalo castelletto con merlettatura e goticismi che sa di fiaba e incantesimi. Concepito e progettato da Mario De Maria (Bologna 1852 - Venezia 1924) nel 1912 ed eletto a sua dimora laboratorio. Marius pictor , apostrofato da Gabriele d'Annunzio che lo adorava «divino pittore lunatico» prediligeva i crepuscoli e le atmosfere lunari. La Casa dei Tre Oci è un condensato di raffinato eclettismo inizio secolo. In facciata tre finestrone ogivali, tre occhi spalancati sul Bacino di San Marco, quasi fari lampeggianti, quasi monito ad un vedere più dilatato. Marius aveva disegnato tutto: i mobili, gli arredi, con guizzo inventivo, e dal palazzetto aleggia un'aura fatata. In quei primi decenni del '900 la Giudecca viveva una sorta di renaissance: banchetti mitologici animavano la frescura del giardino Eden, il salotto della famiglia Herion che, dalla Germania, aveva aperto alla Giudecca una fabbrica di maglieria.
Nel '28 il giardino fu ceduto ad Aspasia di Grecia che lo riportò in auge con party stile «Grande Gatsby», fino all'ultimo stravagante proprietario, che lo lasciò incolto e «sperimentale», l'architetto misteriosofo Hundredwassers, celebre per attraversare a nuoto il Canale. Un altro imprenditore di origine elvetica, Giovanni Stucky, alla fine dell'800 installa dalla parte opposta della Fondamenta un enorme macchinario per la produzione di granaglie. Uno dei primi archetipi di architettura industriale.
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Casa dei Tre Oci (1912) esempio di raffinato eclettismo |
La Casa dei Tre Oci viene abitata dal figlio di Marius, Astolfo con la moglie Adele, anche lui pittore, anche lui strambissimo: chi lo frequentava lo descrive torvo, nevrotico all'inverosimile, logorroico, strampalato e collerico, bello con gli occhi azzurri furoreggianti. La sua pittura intrisa di realismo magico e visionario, notturna e a tratti incubotica. Del sulfureo Astolfo fa un ritratto Maria «Lela» Damerini raccontando la rutilante Venezia degli anni 1929-1940, nel suo libro «Gli ultimi anni del leone»: «(...) Qualche volta veniva Astolfo dalla sua stramba casa zuecchina, coi finestroni ad acquasantiera; lui stesso era strambo, colmo di attrattive e complessi, era impetuoso ed ombroso, aveva mezzo sangue tedesco da parte di madre. Era uno degli amici di casa Cadorin e là lo avevo incontrato". La Casa continua a emettere sortilegi, vi sono continui transiti artistici, la Venezia di chi escogita e fà. Astolfo muore, Adele la eredita e ne perpetua la tradizione di ospitalità agli artisti. Vi transitano Morandi, Fontana, Renzo Piano. Dario Fo la utilizza come stage permanente nel «laboratorio per Arlecchino» nel 1985 assieme al regista teatrale Gianni De Luigi, discendente dei De Maria. Nell'interno di un Ocio adibito ad alcova, Enrico Maria Salerno ambienta la sequenza fatal-terminalistica con la Bolkan e Tony Musante nell'«Anonimo Veneziano», film trash/cult degli anni 70.
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