Edoardo Nesi «Le nostre vite senza ieri» - Bompiani - pp. 155, € 16
Dei Professori Nesi scrive che «usano il telescopio e non il cannocchiale e così non vedono le persone». Le considerano un esercito indistinto di consumatori, prima ancora che dei cittadini. I tecnici parlano (anzi «vagellano») di crescita, liberalizzazioni, infrastrutture, privatizzazioni, ma all'autore appaiono glaciali, alteri, presuntuosi, vuoti. Non sanno e non sapranno mai che il loro mitico mercato vive grazie al personale contributo di centinaia di migliaia di microimprenditori e di milioni di loro dipendenti, non hanno mai conosciuto i follatori e gli annodini, i raccattafili e i garzatori, i maghi che hanno fatto grande non solo Prato ma l'intera Italia manifatturiera. I Professori non conoscono l'odore della lana, quella mistura di grasso naturale e unzione di filatura che per Edoardo rappresenta ancora qualcosa di misterioso e che il papà fa sentire a sua figlia quasi a volerle trasferire il genius loci . I Professori guardano al mondo con distacco cattedratico e Nesi non può amarli. Staranno pure salvando l'Italia ma lui fin quando vede le aziende chiudere non ci crede. Se Le nostre vite senza ieri ha un personaggio che resta impresso, è un vinto, l'industriale Ivo Barrocciai, che non a caso era già stato il protagonista de L'età dell'oro. Ormai anziano, ricoverato in un ospizio e vittima dei farmaci, Ivo improvvisa da mattatore un one man show alla Gassman in cui racconta a infermieri e pazienti i fasti della sua ditta e la vita da magnate del tessile. E giù con il giorno «in cui ho guadagnato sette miliardi», l'altro in cui «presi due Concorde», «l'aquila che comprai da una guardia forestale e mangiava conigli interi», la volta «che pagai una suora per dir messa in una chiesina di montagna» e il concerto di Frank Sinatra che andai a sentire nel 1977 alla Royal Albert Hall di Londra. Gli infermieri e i degenti non sedati applaudono commossi, la sorella Deanna piange e Ivo «continuava a inchinarsi come un attore» a fine spettacolo. Barrocciai e Prato qui diventano metafora dell'Occidente e Nesi annota: «Sarà anche colpa nostra che non abbiamo capito nulla, come ci ripetono i professori d'economia, ma bisogna avere il cuore di un leone per resistere all'incubo che ci vede dimenticati dalla storia in marcia, relitti di un piccolo mondo antico spazzato via da cinesi, indiani, vietnamiti e indonesiani».Un gruppo di operaie cinesi al lavoro in una fabbrica di Prato (Ansa)
E, dopo la nostalgia, il libro approda a un altro dei topos nesiani: il rapporto con la modernità. Edoardo ha creduto da sempre nella libera intrapresa, nella tecnologia, nel sogno capitalistico. I pratesi che ancor oggi venera erano degli imprenditori globali ante litteram , vendevano tessuti ovunque a Salisburgo come a Tokio, il suocero Sergio Carpini veniva chiamato in Georgia per tentare di rivitalizzare il tessile made in Usa . Ma quella globalizzazione portava crescita e benessere, questa gli sembra aver divorziato dalla modernità. E Nesi questo slittamento non potrà mai perdonarlo perché corrisponde a una frattura della sua stessa identità. PS. Ho sentito di recente un cinese chiedere a un interlocutore italiano se, a suo parere, l'Europa sarà un laboratorio d'innovazione o un museo. Nesi d'istinto darebbe la prima risposta, in cuor suo però sa che quella buona è la seconda.
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